E’ ormai noto che l’esposizione all’inquinamento atmosferico indoor e outdoor, ed in particolare al materiale particellare PM (PM10, PM2,5), agli ossidi di azoto (NO e NO2), nonché all’ozono (O3), può determinare un insieme di effetti sanitari avversi: più è alta e costante nel tempo l’esposizione alle polveri sottili, più è alta la probabilità che il sistema respiratorio sia predisposto ad una malattia più grave.
In piena pandemia stanno emergendo, sempre di più, numerose evidenze scientifiche in merito alla possibilità di un’associazione diretta della diffusione dell’infezione da SARS-CoV2 con le aree a elevato livello di inquinamento atmosferico: in Italia, l’ipotesi di un’associazione è stata avanzata in virtù del fatto che aree come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, dove il virus ha presentato la maggiore diffusione, si registrano generalmente le maggiori concentrazioni degli inquinanti atmosferici misurati e controllati secondo quanto indicato e prescritto dalla legislazione di settore (DLgs 155/2010).
Per esempio, l’analisi dei decessi su di un ampio campione di casi effettuato dall’ISS, ha mostrato come la mortalità per COVID-19, sia stata elevata in soggetti che già presentavano una o più patologie (malattie respiratorie, cardiocircolatorie, obesità, diabete, malattie renali, ecc), sulle quali la qualità ambientale indoor e outdoor e gli stili di vita, in ambiente urbano, possono aver giocato un ruolo.
Anche in altre aree del mondo come a Wuhan e ad Harbin in Cina, si è visto che la letalità del coronavirus è stata favorita dall’inquinamento atmosferico ed il conseguente lockdown, che ha portato ad una drastica riduzione dei livelli delle polveri sottili, è stata l’arma vincente per controllare la diffusione dell’epidemia.
(nella foto Milano prima e dopo il lockdown)
Questa settimana è stato aggiunto un altro importante tassello nel complesso puzzle che ricostruisce la relazione tra i livelli di inquinamento atmosferico e l’epidemia di COVID-19 (malattia del Coronavirus causata dalla SARS-CoV-2). A metterla in evidenza, è uno studio intitolato “Comprendere l’ eterogeneità degli esiti avversi del Covid 19: il ruolo della scarsa qualità dell’ aria e le decisioni del lockdown”, condotto da Leonardo Becchetti, docente dell’Università di Roma Tor Vergata, Gianluigi Conzo, anche lui di Tor Vergata, Pierluigi Conzo dell’Università di Torino e Francesco Salustri, del Centro di ricerca sull’economia della salute dell’Università di Oxford.
Si tratta dello studio italiano più completo mai realizzato sulla relazione tra inquinamento e COVID-19 in cui sono stati analizzati i dati di tutti i comuni e di tutte le province, sia in termini di decessi che di contagi giornalieri. Nello studio le variabili significative sulle cause di contagio e i decessi per Covid-19, sono rappresentate dal combinato disposto di tre fattori: le misure di lockdown, il livello dell’inquinamento locale – soprattutto polveri sottili ma anche biossido di azoto – e le tipologie delle strutture produttive locali, in particolare le attività non digitalizzabili, che quindi nel periodo più acuto della crisi epidemica hanno avuto maggiori resistenze a chiudere.
Le stime indicano che la differenza tra province più esposte a polveri sottili (in Lombardia) e meno esposte (in Sardegna) è di circa 1.200 casi e 600 morti in un mese, un dato che implicherebbe il raddoppio della mortalità e dove il livello delle polveri sottili è più elevato (Lombardia, nella Pianura padana dell’ Emilia-Romagna e anche nella zona di Pesaro-Urbino), sono anche le zone di maggior contagio. A risultati simili è pervenuto un gruppo di ricerca di Harvard che ha studiato il fenomeno nelle contee degli Stati Uniti ed è noto che nelle aree rurali di molti paesi europei, dove il i livelli di poveri sottili (PM 10 e PM 2,5) sono estremamente bassi, si contano pochissimi casi di SARS-CoV2.
Se guardiamo alle polveri più sottili (Pm2,5) solo il 6% dipende da movimenti atmosferici. Il 57% è prodotto dal riscaldamento domestico, mentre quote attorno al 10% ciascuna dalle modalità di trasporto, dalle fonti di energia e dalla produzione industriale ed agricola;
Queste evidenze portano a ragionare sulle politiche economiche e su come dovrebbero cambiare, alla luce di una pandemia che sta mettendo in ginocchio i sistemi industriali di tutto il mondo: per contrastare anche in futuro la diffusione di nuovi virus è necessario operare una rivoluzione in termini di sostenibilità ambientale, non solo a livello individuale ma anche nel mondo del lavoro e dell’impresa.
Non si tratta di optare per la decrescita, ma per una ripresa resiliente e sostenibile, intervenendo su settori come l’efficientamento energetico dell’edilizia attraverso la leva dell’ecobonus, la riqualificazione in chiave bioecologica degli ambienti indoor, la mobilità sostenibile, la digitalizzazione e la dematerializzazione mediante lo smart-working e l’economia circolare. Con la decarbonizzazione dell’edilizia, del lavoro e della mobilità potremmo incidere sul 70-80% dell’inquinamento.
Sono interventi che non paralizzerebbero l’economia ma metterebbero in moto un gigantesco “green new deal” che sarebbe la chiave di un nuovo modello di sviluppo in grado di coniugare creazione di valore economico, competitività, lavoro, sostenibilità ambientale, salute e conciliazione della vita e del lavoro con quella delle relazioni: attraverso questo unico modello di sviluppo sostenibile si riuscirebbe a “governare” l’epidemia e ad attuare concretamente e rapidamente la transizione energetica, riducendo le emissioni dei gas climalteranti in modo da evitare, nei prossimi decenni, conseguenze catastrofiche a livello ambientale e sanitario.
Per tale ragione, nella lotta al SARS-CoV2, gli investimenti in tema di sostenibilità energetica ed ambientale possono risultare più efficienti ed efficaci persino dei programmi per la ricerca di un vaccino: ormai è noto che la ricerca di un vaccino il più delle volte è insostenibile, sia per le ingenti risorse da impiegare, che per le enormi difficoltà di arrivare, in tempi brevi, alla fase della vaccinazione di massa della popolazione (soprattutto in caso di pandemia) o ancora peggio, senza avere la certezza del risultato, come è già accaduto per il vaccino contro HIV: sono ormai 35 anni che si fa la ricerca senza alcun successo e ad oggi, con i nuovi farmaci, le prospettive di vita dei pazienti HIV sono pressoché paragonabili a quelle della popolazione senza l’infezione.
Anche l’epidemia da SARS-CoV2 potrebbe essere “gestita” optando per le nuove cure farmacologiche abbinate ad un programma di riduzione delle emissioni inquinanti, soprattutto perchè ci sono delle probabilità che il covid-19 possa subire delle mutazioni e comunque diminuire la sua carica virale (da qui l’inutilità di un vaccino): incidere sulla riduzione dell’inquinamento, non solo non ha alcun “effetto avverso” contrariamente a qualsiasi vaccino, ma permette di ridurre drasticamente, sia il tasso di letalità del SARS-Cov2, che della maggior parte delle patologie tumorali, cardiovascolari, infiammatorie, croniche e degenerative. A sua volta, la minore incidenza di patologie croniche e polmonari porterebbe a minori complicanze nella gestione di future epidemie (la letalità di qualsiasi virus è sempre minore in pazienti in buona salute e senza patologie croniche ed infiammatorie). Tale approccio sostenibile avrà anche effetti positivi sulla preservazione delle biodiversità e delle foreste, rendendo sempre più difficile future zoonosi ovvero il salto di specie (spillover) di virus, batteri e parassiti dall’animale all’uomo.
La parola chiave per il prossimo futuro deve essere quindi resilienza, in termini di lavoro, crescita economica, tutela ambientale e della salute; i fattori chiave per raggiungere questi obiettivi sono: riqualificazione edilizia ad alta sostenibilità energetica, ambientale e bioecologica (ecobonus e miglioramento delle condizioni di benessere abitativo indoor), smart working & mobilità sostenibile, economia circolare (rigenerativa ed ecosostenibile).